[vc_single_image image=”7093″ img_size=”600×315″ alignment=”center” css=”.vc_custom_1473785808382{border-right-width: 300px !important;border-left-width: 300px !important;background-color: #cc3333 !important;}”]
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La Costituzione italiana così come approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 è un testo estremamente chiaro e di semplice lettura, sia da un punto di vista giuridico, sia da un punto di vista lessicale. Questo risultato fu ottenuto grazie a una forte azione di coordinamento del Comitato di redazione e, soprattutto, grazie alla revisione stilistica operata da Concetto Marchesi, Pietro Pancrazi e Antonio Baldini successivamente all’approvazione del testo così come uscito dalla Commissione per la Costituzione (la cosiddetta “Commissione dei 75”), prima della votazione finale della Costituente.
Nonostante le origini volte a una chiarezza espressiva, le riforme costituzionali che si sono succedute nella storia non hanno mai provveduto a operazioni di questo tipo, tanto meno la riforma costituzionale che verrà ora sottoposta a referendum confermativo. Il testo di questa riforma risulta fumoso e ingarbugliato, sia da un punto di vista stilistico, per cui ne va della semplice comprensione, sia da un punto di vista giuridico: in quest’ultimo caso, tra l’altro, semplicemente analizzando le note di analisi del Servizio Studi del Senato, si possono notare lacune normative e problemi di coordinamento di un certo rilievo.

[vc_toggle title=”LE CAMERE – LA COMPOSIZIONE” style=”round_outline” el_id=”1473784831975-3a720ca2-258d”]La Riforma Costituzionale ha tra gli obiettivi principali di semplificazione del quadro istituzionale e del processo legislativo, quello del superamento del bicameralismo perfetto.
Il dibattito costituzionale in Italia considera da decenni l’opportunità di una differenziazione di funzioni, competenze e caratterizzazione rappresentativa tra le due Camere, ad oggi parificate sostanzialmente in tutto.
La Riforma disegna un nuovo Senato, non accogliendo la tesi di chi avrebbe preferito virare verso un sistema monocamerale.
I componenti saranno 100 rispetto ai 315 attuali e non saranno più eletti direttamente dai cittadini, ma nominati:

  • 5 dal Presidente della Repubblica: non si tratterà più di “senatori a vita”, quindi di fatto inamovibili, bensì di senatori nominati per la normale durata della carica del Presidente della Repubblica, ossia 7 anni. Solo gli ex Presidenti della Repubblica assumono a vita la carica di senatore.
  • 74 dai Consigli Regionali (2 dei quali da ciascuna delle province autonome di Trento e Bolzano), sulla base di una legge elettorale ancora da definire e che dovrebbe consentire di tenere conto delle scelte degli elettori nell’indicare quali consiglieri eletti debbano sedere anche a Palazzo Madama.
  • 21 sindaci eletti dai Consigli delle regioni e delle province autonome, uno per ciascuno e con modalità non definite dalla riforma.

Si tratta di un’architettura complicata, indecifrabile dal cittadino e che necessita di una legislazione elettorale nazionale che s’intersechi con almeno una dozzina di leggi elettorali regionali, varianti rese possibili a partire dalla revisione del Titolo V avvenuta nel 2001.
Ne esce quindi un Senato differenziato dalla Camera nella rappresentanza, e cioè privato dell’elettività diretta in favore di un congegno che consegna alle assemblee regionali un potere di nomina che la nuova Carta legherebbe in modo troppo vago alla volontà dell’elettorato. Se si deve tener conto della scelta degli elettori, perché non farlo chiaramente tramite l’elezione diretta?
Non essendo più il Senato espressione diretta degli elettori, viene poi eliminato il suo rapporto di fiducia con il Governo, al quale sarebbe sufficiente la solida maggioranza garantita alla Camera dal ballottaggio previsto con l’Italicum. Non si può infatti prescindere dalla legge elettorale nell’analisi degli equilibri costituzionali!

Viene poi introdotto all’art. 64 un simbolico “dovere di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori delle commissioni”, proprio contestualmente alla previsione di una figura di senatore che dovrà interpretare un doppio incarico, spesso su territori molto distanti fra loro. Preoccupa, a maggior ragione, la sostenibilità dell’incarico di senatore e sindaco, figura dalla quale dipende l’intera amministrazione comunale.

Statuto delle opposizioni
All’art. 64 viene introdotto il principio secondo il quale i regolamenti delle Camere devono garantire i diritti delle minoranze parlamentari. Tuttavia è demandata al solo regolamento della Camera dei deputati la disciplina di uno statuto delle opposizioni.
La riforma presume quindi che il Senato non si articolerà al suo interno in una dinamica di maggioranza e opposizione in seguito all’abolizione del rapporto fiduciario con il Governo. La permanenza di alcune ipotesi di bicameralismo paritario (art. 70) e l’assenza del vincolo di mandato anche per i Senatori, nonostante essi rappresentino non più la Nazione ma gli enti territoriali, fanno però immaginare che i senatori non si organizzeranno in gruppi territoriali (come invece avviene nel Bundesrat tedesco) ma anch’essi in gruppi politici. Pertanto, anche in considerazione del permanere dell’iniziativa legislativa in capo ad ogni parlamentare, non sembra corretto che solo la Camera si doti di uno specifico strumento di tutela delle opposizioni.[/vc_toggle][vc_toggle title=”LE CAMERE – LE FUNZIONI” style=”round_outline” el_id=”1473784938880-925274fa-f67e”]Stato di guerra

Lo Stato di guerra potrà essere deliberato dalla sola Camera dei deputati. Non basterà più la sola maggioranza semplice, ma sarà necessaria la maggioranza assoluta.

Il procedimento legislativo

La modifica dell’art. 70 rappresenterebbe il secondo punto cardine dell’abolizione del bicameralismo paritario. Il testo originario (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.”) viene fortemente ampliato per elencare le materie in cui è necessariamente previsto l’esame e l’approvazione del disegno di legge anche dal Senato:

  • leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali.
  • leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche.
  • referendum popolari e altre forme di consultazione di cui all’articolo 71.
  • leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni.
  • legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea.
  • legge che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore.
  • altre tipologie di leggi così elencate dalla proposta di nuovo testo costituzionale: “leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma.”

Tutte le altre leggi sarebbero invece approvate solo dalla Camera, a meno che, entro dieci giorni dalla trasmissione al Senato del testo adottato dai deputati, un terzo dei Senatori non richieda di esaminarlo. Entro trenta giorni devono essere disposte le proposte di modifica su cui però deciderà in via definitiva la Camera, che potrà quindi rigettarle e concludere l’iter senza tenere conto del contributo del Senato.

Il sistema si presta facilmente a conflitti di attribuzione tra le due Camere che dovrebbero essere risolti d’intesa dai presidenti di Camera e Senato sulla base dei rispettivi regolamenti da adottare nel caso di entrata in vigore della costituzione modificata. In un sistema politico ormai tripolare, e in cui i due rami del parlamento si “eleggono” l’uno su base regionale e l’altro su base nazionale a doppio turno, non pare infondata l’ipotesi di presidenze di segno opposto e di un Senato poco disposto a cedere competenza alla maggioranza di governo che sederà alla Camera.
Chi risolverebbe conflitti interpretativi delle competenze potenzialmente insanabili?

Iniziativa legislativa

L’iniziativa legislativa permane in capo al Governo, ai parlamentari e ad organi ed enti cui tale potere sia conferito da legge costituzionale. Questi ultimi, in seguito all’abolizione del CNEL, si risolverebbero nei Consigli Regionali che potrebbero sottoporre proposte di legge alla sola Camera dei Deputati sulla base del nuovo testo dell’art.121 che elimina il riferimento al Senato. Non si capisce quindi come ciò si coordini con l’intento di un nuovo Senato rappresentativo degli enti locali.
Per quanto riguarda il Senato, l’iniziativa è ulteriormente limitata dalla necessità di approvazione di un testo a maggioranza assoluta dei suoi componenti. In questo caso la Camera dovrebbe esprimersi entro sei mesi sul disegno di legge. Non c’è qui alcun limite di materia, né è del tutto chiara la sorte della proposta nel caso in cui non venga approvata alla Camera.

Esame e approvazione delle leggi

La riforma costituzionale sostituisce in toto l’articolo 72, differenziando la disciplina tra Camera e Senato, ma soprattutto inserendo il nuovo istituto della “corsia preferenziale” per i disegni di legge del Governo: “il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione.”
Di fatto, quindi, si risolve l’odiosa prassi della decretazione d’urgenza, spesso accompagnata dall’apposizione della fiducia sulla legge di conversione (da molti autorevoli commentatori definita come un vero e proprio ricatto nei confronti del Parlamento), con un procedimento ancora più spedito e caratterizzato da limiti ben più laschi.
La clausola dell’essenzialità per l’attuazione del programma di governo è di gran lunga più permissiva e non gode certo della consolidata giurisprudenza costituzionale formatasi sui casi straordinari di necessità e d’urgenza”, posti come condizione per l’emanazione dei decreti legge dall’art.77, Cost.
I limiti e le modalità del ricorso a questo procedimento sono poi demandati al regolamento della Camera dei Deputati. Anche questo rappresenta un elemento estremamente critico, in quanto la Corte Costituzionale, con la sent. 154/1985 ha negato di poter sindacare la legittimità costituzionale dei regolamenti parlamentari, in quanto non appartenenti alla categoria degli “atti con forza di legge” indicata dall’articolo 134, Cost.

Vaglio preventivo di legittimità costituzionale sulle leggi elettorali di Camera e Senato
La riforma costituzionale introdurrebbe un elemento finora sconosciuto al nostro sistema costituzionale: un controllo di legittimità preventivo all’emanazione della legge elettorale.
Questo sarebbe svolto dalla Corte Costituzionale, solo se almeno un quarto dei componenti della Camera o almeno un terzo del Senato ne faccia richiesta entro dieci giorni dall’approvazione. La Corte decide entro trenta giorni. Se la Corte Costituzionale dovesse dichiararla illegittima la legge elettorale non potrà essere promulgata.
A riguardo, il presidente della Corte Costituzionale Alessandro Criscuolo ha sollevato delle perplessità sull’incidenza di questo istituto sul ruolo della Consulta che rischierebbe di essere esposta ad accuse di politicizzazione nell’esercizio delle sue funzioni.
Molti costituzionalisti s’interrogano inoltre su come dovrebbero convivere il vaglio preventivo con un eventuale esame incidentale (a posteriori) sulla stessa legge. Potrà la Corte pronunciarsi due volte? In Francia, dove il controllo a priori non è limitato alla sola legge elettorale, non può essere proposto un nuovo giudizio di costituzionalità in via incidentale su una disposizione che sia già stata esaminata dal Conseil constitutionnel.
La riforma, tuttavia, non affronta questo delicato passaggio che potrebbe portare a pericolose incertezze applicative e nulla dice su un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità parziale della legge e cioè relativa ad alcuni limitati profili che la Corte potrebbe sollevare. In quest’ultimo caso potrebbe risultare irragionevole non prevedere l’entrata in vigore della legge per la parte non dichiarata illegittima o quantomeno non indicare una via d’uscita che non sia quella di precludere in ogni caso la promulgazione.

Vincoli e Nuovo salvagente per i decreti-legge

Viene introdotto in Costituzione il divieto per il Governo di disciplinare con provvedimenti aventi forza di legge in materia costituzionale ed elettorale, delegazione legislativa, conversione in legge di decreti, autorizzazione a ratificare trattati internazionali e approvazione di bilanci e consuntivi, con esclusione, per la materia elettorale, della disciplina dell’organizzazione del procedimento elettorale e dello svolgimento delle elezioni.
Ulteriore vincolo consiste nel divieto di reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e di regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi; ripristinare l’efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale abbia dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento.
Non si tratta di vere e proprie innovazioni ma di un recepimento della giurisprudenza consolidata della Corte Costituzionale in materia.
L’articolo 14 del ddl. Boschi invece introduce una rilevante novità che incide sul potere del PdR di rinvio alle Camere di un provvedimento di legge quando la ritiene in contrasto con norme costituzionali o rileva vizi del procedimento legislativo. Nello specifico la riforma interviene nel caso in cui la legge rinviata sia di conversione di un decreto adottato dal Governo “in casi di estrema necessità ed urgenza” e stabilisce una proroga di 30 giorni, oltre ai 60 già previsti, per evitare che maturi la decadenza di tutti gli effetti del provvedimento, se non convertito in legge.
Si consente quindi una sorta di seconda chance ad uno strumento largamente abusato nel corso della storia repubblicana e nella fattispecie in una situazione in cui il Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, abbia sollevato delle criticità.

Quorum alternativo per il Referendum abrogativo

Non mutano né il numero di 500.000 elettori necessari alla proposizione del quesito né le leggi che non possono essere sottoposte a voto popolare: “leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.
Viene invece introdotto un nuovo quorum nel caso in cui le sottoscrizioni della proposta referendaria superino gli 800.000 elettori: per ottenere l’abrogazione, in questo caso, sarebbe sufficiente la partecipazione alla consultazione di un numero di elettori pari alla maggioranza dei votanti all’ultima elezione della Camera dei deputati, oltre ovviamente ad una vittoria dei Sì.
Si abbassa così di molto la soglia di partecipanti necessaria a validare il referendum, ma in quante occasioni si sono raggiunte le 800.000 sottoscrizioni in passato e quali soggetti sarebbero in grado di farlo in futuro?

Un documento dei Radicali riguardante i Referendum tenutisi in Italia dal 1974 al 2005 mette in risalto dei dati piuttosto interessanti: sui 170 Referendum promossi, 43 non hanno raggiunto le firme necessarie, 54 sono stati bocciati dalla Corte Costituzionale per inammissibilità del quesito e solo 24 non sono risultati validi per mancato raggiungimento del quorum (20 sono stati vinti dai promotori, 16 persi e 15 non si sono tenuti perché superati da interventi del legislatore o della Consulta)! A questi dati si aggiungono quelli dei 3 quesiti referendari del 2009 falliti per il mancato raggiungimento del quorum, i 4 quesiti vittoriosi del 2011 e il recente referendum sulle trivelle del 2016, anch’esso fallito a causa del raggiungimento del solo 31,2% di aventi diritto partecipanti al voto.   

Dallo storico risulta che la causa principale di fallimento dello strumento di democrazia diretta non sia il raggiungimento del quorum, bensì l’alto numero di firme richieste e l’illegittimità del quesito.
Per quanto riguarda il Senato, l’iniziativa è ulteriormente limitata dalla necessità di approvazione di un testo a maggioranza assoluta dei suoi componenti. In questo caso la Camera dovrebbe esprimersi entro sei mesi sul disegno di legge. Non c’è qui alcun limite di materia, nè è del tutto chiara la sorte della proposta nel caso in cui non venga approvata alla Camera.
Infine, viene aggiunta come ultimo comma la disposizione che assegna ad una futura legge costituzionale la definizione di “condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo” e di “altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali.”
Ne risulta che tali strumenti di partecipazione diretta non saranno direttamente applicabili, bensì necessiteranno di una legge costituzionale (da approvare quindi con il procedimento legislativo rafforzato dalle maggioranze qualificate e dal referendum confermativo) e poi di una legge ordinaria che disciplini la loro attuazione.
Ricordiamo che, dall’entrata in vigore della Costituzione, si è dovuto attendere il 1970 sia per la promulgazione della legge costituzionale attuativa del referendum abrogativo sia per l’entrata in funzione delle Regioni ordinarie. Non basta infatti prevedere un istituto in Costituzione affinché questo sia applicato. Dipenderà quindi dalla volontà e dalla valutazione dell’opportunità politica delle future maggioranze parlamentari mettere in pratica o meno gli strumenti di democrazia diretta.[/vc_toggle][vc_toggle title=”STRUMENTI DI DEMOCRAZIA DIRETTA” style=”round_outline” el_id=”1473784987667-7e6a0470-9e72″]Legge di iniziativa popolare

Il numero di firme richieste per la presentazione di un disegno di legge di iniziativa popolare passa da 50mila a 150mila, limitando molto le possibilità di successo delle campagne di raccolta delle sottoscrizioni in una fase in cui sempre meno sono i soggetti strutturati e organizzati sul piano nazionale.
Contestualmente però, la riforma affida ai regolamenti parlamentari la definizione dei tempi e dei modi d’esame, discussione e votazione delle Leggi di iniziativa popolare che verranno proposti al Parlamento.

Referendum propositivi e di indirizzo

Viene aggiunta come ultimo comma dell’art. 71 la disposizione che assegna ad una futura legge costituzionale la definizione di “condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo” e di “altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali.”
Ne risulta che tali strumenti di partecipazione diretta non saranno direttamente applicabili, bensì necessiteranno di una legge costituzionale (da approvare quindi con il procedimento legislativo rafforzato dalle maggioranze qualificate e dal referendum confermativo) e poi di una legge ordinaria che disciplini la loro attuazione.
Ricordiamo che, dall’entrata in vigore della Costituzione, si è dovuto attendere il 1970 sia per la promulgazione della legge costituzionale attuativa del referendum abrogativo sia per l’entrata in funzione delle Regioni ordinarie. Non basta infatti prevedere un istituto in Costituzione affinché questo sia applicato. Dipenderà quindi dalla volontà e dalla valutazione dell’opportunità politica delle future maggioranze parlamentari mettere in pratica o meno gli strumenti di democrazia diretta.[/vc_toggle][vc_toggle title=”PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E CORTE COSTITUZIONALE” style=”round_outline” el_id=”1474551641147-856e9ee1-583d”]Elezione del Presidente della Repubblica

Il sistema di elezione del Presidente della Repubblica viene modificato (Art.21, A.C. 2613-B, di modifica dell’Art.83 della Costituzione).
L’elezione avverrà dalle Camere riunite in seduta comune, ma non più in presenza di delegati regionali: la rappresentanza delle autonomie regionali infatti sarebbe già garantita dalla nuova composizione del Senato.
Dal primo al terzo scrutinio potrà essere eletto un Presidente con la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea.
Dal quarto al sesto scrutinio la maggioranza necessaria sarà dei tre quinti dell’assemblea.
Dal settimo scrutinio in poi sarà necessaria una maggioranza di tre quinti dei votanti.
Il peso della Camera dei deputati nell’elezione del Presidente della Repubblica, ovviamente aumenterà, sia perché la differenza numerica tra le due Camere sarà maggiore rispetto a quella attuale (630 deputati e 100 senatori con le modifiche costituzionali – 6,3 a 1-, contro i 630 deputati e 315 senatori prima – 2 a 1-), sia perché chi vincerà le elezioni avrà a disposizione un grande numero di deputati: il premio di maggioranza dell’Italicum è di 340 deputati su 630. I 290 seggi rimanenti vengono ripartiti tra i partiti “perdenti”.
Le maggioranze qualificate previste dalle modifiche alla Costituzione non dovrebbero permettere che il solo partito di maggioranza possa eleggere, da solo, il Presidente della Repubblica. I primi due blocchi di maggioranze qualificate vanno sicuramente in questa direzione.
Dal 7° scrutinio in poi, essendo sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti, le garanzie rischiano di affievolirsi poiché se il tasso di presenze dovesse essere inferiore all’80% si potrebbero aprire i giochi per un’elezione per mano del solo partito di maggioranza.
Anche le maggioranze qualificate successive alla quarta tornata potrebbero permettere a una maggioranza della Camera, con l’aiuto dei membri eletti nel medesimo partito in Senato, un accordo anche con una piccola componente di deputati per poter eleggere il Presidente della Repubblica. Pertanto, il vero elemento di rilievo risulta essere il premio presente nell’Italicum, visto che, da solo, conferisce al partito di maggioranza quasi la metà dei deputati utili a eleggere il Presidente della Repubblica: ipoteticamente, già dal primo turno, un’alleanza tra partito di maggioranza e metà dei partiti di opposizione della sola Camera potrebbe permettere di eleggere il Presidente della Repubblica.

Elezione dei giudici costituzionali

La riforma costituzionale interviene anche sulla componente di elezione parlamentare della Corte Costituzionale, 5 giudici sul totale di 15.
La Costituzione in vigore prevede che questi giudici siano eletti in seduta comune di Camera e Senato e a ciò si ricollega la legge costituzionale n.2 del 1967 che disciplina le modalità di elezione: maggioranza dei ⅔ per le prime due votazioni e dei ⅗ dalla terza votazione.
La riforma suddivide l’elezione della componente parlamentare in due “quote”: 3 giudici verranno eletti dalla Camera e 2 dal Senato. Secondo lo stesso servizio studi del Senato questo intervento determinerebbe l’abrogazione implicita della legge costituzionale citata che espressamente si riferisce ad un contesto di Camere riunite in seduta comune, determinando quindi il venir meno di una disciplina di elezione applicabile. [/vc_toggle][vc_toggle title=”TITOLO V – RAPPORTO TRA STATO E ISTITUZIONI TERRITORIALI” style=”round_outline” el_id=”1474551782831-40de100a-ba6a”]Competenze esclusive dello Stato

La nuova riforma del Titolo V rivede completamente l’insieme delle materie di competenze statali e regionali, rispetto alla riforma del 2001.
Verranno ricondotte allo Stato varie materie ex-concorrenti all’art. 117: “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, […] tutela e promozione della concorrenza, […] disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”, “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare”, “tutela e sicurezza del lavoro”, “ordinamento delle professioni e della comunicazione”, “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia”, “infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale”.

Si cancellano i principi contenuti nella scorsa riforma della costituzione, eliminando la competenza concorrente e riducendo il potere legislativo delle Regioni: di fatto, si cerca di tornare a una divisione “netta” tra competenze dello Stato e competenze delle Regioni.
Nonostante l’intento, nella riforma del Titolo V del Governo Renzi, sia quello di tornare a una suddivisione chiara di competenze legislative tra Stato e regioni, il risultato non è quello dichiarato: la competenza concorrente continuerà a esistere per tutte quelle materie dove la competenza esclusiva dello Stato sarà limitata alle c.d. disposizioni generali e comuni.
La Corte Costituzionale ha più volte indicato come la ripartizione delle competenze in base alle materie sia stata una delle motivazioni alla base di diversi contenziosi tra Stato e regioni (un’analisi assai approfondita è presente nella pubblicazione del 2009 “Giustizia costituzionale e autonomie regionali. In tema di applicazione del nuovo Titolo V” di Antonio D’Atena): non si è sfruttata la riforma costituzionale per trovare una soluzione a questo problema.

Clausola di supremazia statale

“Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” (Art.31, comma 4, di modifica dell’Art.117 Cost.).
In nome dell’interesse nazionale, il Governo potrà proporre al Parlamento di intervenire sul piano legislativo anche in materie di competenza esclusiva delle Regioni, un’inversione di rotta rispetto alla valorizzazione delle autonomie e del principio di sussidiarietà.[/vc_toggle][vc_toggle title=”IL DIRITTO ALLO STUDIO” style=”round_outline” el_id=”1474551810423-238f0787-3b7f”]“Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia […] di promozione del diritto allo studio, anche universitario” (Art.31, comma, di modifica del 117 Costituzione).
Dagli anni Settanta al 2001 il Titolo V è stato soggetto a numerosi cambiamenti, quasi sempre in un’ottica federalista, decentrando i poteri dallo Stato alle regioni. Ora, nel testo di modifica dell’art 117, per la prima volta il diritto allo studio, anche universitario, è citato esplicitamente nell’ambito delle competenze esclusive delle regioni, ma solo per quanto riguarda la sua “promozione”.
Se da un lato questa modifica potrebbe rappresentare, almeno in linea teorica, il primo passo per una reale garanzia di uniformità del diritto allo studio su tutto il territorio nazionale, in quanto la competenza del “resto” spetterebbe allo Stato, dall’altro lato, si rischia che questa formulazione costituzionale possa andare nella direzione di rendere il sistema ancora meno efficiente e lontano dalle reali esigenze degli studenti.
Viste le continue problematiche date dalle competenze poco chiare, che provocano responsabilità diffuse e difficilmente rintracciabili, non ultime le uscite del Ministro Giannini sulla questione dell’assegnazione della competenza di gestione di borse e servizi dagli enti agli atenei stessi, questa parte della riforma costituzionale, pur delineando inequivocabilmente un accentramento della gestione, non risolve affatto il problema di una netta e chiara distinzione delle competenze tra lo stato e il resto degli attori coinvolti (regioni, enti per il diritto allo studio, scuole e università). Lo stesso termine “promozione”, infatti, a livello costituzionale viene di consuetudine utilizzato per regolamentare materie ben diverse dal diritto allo studio. Non viene chiarito a livello costituzionale, e nemmeno nella discussione parlamentare, che debba essere compito dello Stato garantire investimenti utili a fornire la copertura totale del diritto allo studio.
Con lo spostamento delle competenze sul piano nazionale, è inevitabile che si verifichi una contrazione degli aspetti oggetto di contrattazione territoriale. È evidente che il CNSU in questo dovrà giocare un ruolo fondamentale, ma anche questo aspetto non è stato finora oggetto di discussione “costituente”. Un ragionamento analogo andrà fatto rispetto al ruolo del CNPC all’interno di questo nuovo assetto.
L’occasione persa di una riforma costituzionale che avrebbe potuto rappresentare un’importante occasione per rimettere in discussione non soltanto l’impianto formale, ma anche la visione generale del diritto allo studio, dimostra l’inesistente volontà dello Stato all’investimento politico ed economico su questo fronte. Il fatto stesso che il cambiamento delle competenze sia stato fatto senza discutere con le associazioni di rappresentanza studentesca, e le osservazioni e le richieste di chiarimenti siano passare sotto traccia, dimostra come questo cambiamento delle competenze sia frutto di un riordino “tecnico” delle competenze e non la reale volontà da parte dello Stato di riportare la competenza a livello statale al fine di spostare anche la responsabilità per quanto riguarda la copertura completa delle borse di studio ed erogazione di servizi del diritto allo studio in modo uniforme sul territorio nazionale.[/vc_toggle][vc_toggle title=”ABOLIZIONE DI PROVINCE E CNEL” style=”round_outline” el_id=”1474551971829-90b461a2-81fc”]Abolizione delle province

In più parti della riforma vengono inseriti emendamenti alla Costituzione per far sì di eliminare completamente l’istituzione delle province, e relativi poteri e funzioni dalla Carta.
Tuttavia, questa eliminazione “verbale” non ha alcun effetto diretto sull’eliminazione effettiva delle province come istituzione. Di conseguenza, queste continueranno a funzionare grazie alle leggi esistenti, finché il Parlamento stesso non deciderà di “chiuderle” definitivamente.

Abolizione del CNEL

L’Articolo 28 abroga l’Articolo 99 della Costituzione, di fatto abolendo il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), organo consultivo con diritto d’iniziativa legislativa e funzioni di espressione di pareri in materie economiche e sociali.[/vc_toggle][vc_toggle title=”ITALICUM in PILLOLE” style=”round_outline” el_id=”1474552025229-18917a2b-5864″]La Legge 52 del 2015, attualmente in vigore, meglio conosciuta come Italicum, è una legge elettorale a doppio turno, con premio di maggioranza, nata per disciplinare l’elezione della sola Camera dei Deputati. È entrata in vigore il 1° luglio 2016.
Per l’Italicum gli attori che potranno competere nelle elezioni sono solamente singole liste elettorali: non sarà più possibile prevedere le coalizioni. Ogni lista deve designare un capolista “bloccato” in ogni collegio: ogni capolista può candidarsi in un massimo di 10 colleghi. Gli elettori hanno la possibilità di esprimere due preferenze “di genere”. Inoltre, i capilista non potranno essere per più del 60% appartenenti allo stesso sesso nella stessa regione.
La soglia di sbarramento per l’accesso al Parlamento al 3% al primo turno è da intendersi, quindi, per le singole liste elettorali.
La llista che al primo turno dovesse raggiungere il 40% dei voti otterrebbe il 54% dei seggi (340 posti su 630 – di cui 618 eletti nelle circoscrizioni presenti nel territorio italiano e 12 della circoscrizione estero). Nell’Italicum è presente una soglia di sbarramento al primo turno per i partiti che non dovessero raggiungere il 3%.
Se nessuno dei partiti candidati non dovesse raggiungere il 40% dei consensi dei votanti, si procederebbe al secondo turno. In questo caso si svolgerebbe un ballottaggio tra i due partiti che hanno ottenuto il maggior numero di consensi: tra primo e secondo turno non è possibile mettere in campo né apparentamenti, né accordi formali. Il partito vincitore del ballottaggio usufruirà del premio di maggioranza.
Il territorio italiano viene diviso in 100 collegi plurinominali all’interno di 20 circoscrizioni elettorali: saranno disponibili 6 seggi per collegio (eccetto Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta).
Al momento l’Italicum è al vaglio della Corte Costituzionale, che dovrà valutare i quesiti rinviati dai Tribunali di Messina e Torino. La Consulta si sarebbe dovuta esprimere il 4 ottobre, ma il 20 settembre ha rinviato il giudizio e ora si attende la definizione della nuova data della sentenza.[/vc_toggle]