Reggio Calabria, 13 novembre 2025 – Sei uomini sono stati condannati a marzo per violenza sessuale di gruppo su due ragazze minorenni di Seminara e Oppido Mamertina, nel cuore della provincia di Reggio Calabria. Il processo, davanti al gup del tribunale di Palmi, Francesca Mirabelli, ha inflitto pene da 5 a 13 anni di carcere. Altri sei imputati sono stati assolti. La vicenda, emersa grazie all’operazione “Masnada” della polizia il 15 novembre 2023, ha scosso profondamente la comunità locale e lasciato ferite ancora aperte.
La denuncia che ha rotto il silenzio
Una delle vittime, oggi ventiduenne, ha deciso di raccontare la sua storia. Vive in una località segreta, protetta dalla Regione Calabria. “Mi dicevano che ero pazza, che dovevo ammazzarmi”, racconta con voce ferma. Le sue parole scorrono veloci: “Mi insultavano, minacciavano, picchiavano, frustavano. Ma io sono qui. Piuttosto che vivere nella menzogna avrei preferito morire. Non era vita, era morte in vita”. Qualche mese fa ha lasciato il paese dov’era nata. Prima, passava le giornate chiusa in casa, incapace di uscire anche solo per pochi minuti. “Ogni mattina mi dicevo: oggi provo a uscire. Ma poi non ce la facevo. Restavo a letto a piangere”.
Una famiglia spaccata e minacce continue
Con lei è rimasta solo la madre. “Mia sorella all’inizio mi stava vicino, poi mi ha abbandonata”, spiega. Gli altri familiari – fratello, sorella e i loro compagni – hanno ricevuto il divieto di avvicinamento. La zia e il cugino, invece, sono sorvegliati con il braccialetto elettronico: “Se si avvicinano, il dispositivo suona”. Le restrizioni sono arrivate perché, racconta la giovane, “mi hanno minacciata, maltrattata, volevano costringermi a ritirare la denuncia contro chi mi aveva stuprata”. La zia – sorella del padre – e il cugino l’avrebbero anche picchiata. “Mia zia mi ha frustata con una corda. Diceva che dovevo morire, che sarebbe stato meglio non fossi mai nata”. La donna abitava vicino: “Si affacciava alla finestra e urlava contro di me. Diceva che avevo rovinato la reputazione di tutti”.
La paura che paralizzava, ma la forza di parlare
Denunciare non è stato facile. “Se non avessi saputo cosa era successo all’altra ragazza, probabilmente non avrei mai trovato il coraggio di parlare”, confessa. Solo dopo aver sentito la sua storia ha deciso di rivolgersi alla polizia. Ma la paura non l’ha mai abbandonata: “Mi tenevo tutto dentro. Mi minacciavano: se parliamo, ammazziamo i tuoi familiari. Avevo un terrore enorme”. Aveva un fidanzato, ma non gli aveva detto nulla. “Quando ha saputo tutto, mi ha lasciata subito”.
Il sostegno che ha fatto la differenza
Nonostante tutto, la ragazza riconosce il ruolo fondamentale delle forze dell’ordine: “Ringrazio la polizia e i carabinieri. In particolare la dirigente del commissariato di Palmi, Concetta Gangemi, e il poliziotto di fiducia, Francesco Prestopino. Senza il loro appoggio non ce l’avrei mai fatta”. Un sostegno concreto che le ha permesso di resistere all’isolamento e alle continue minacce.
Ferite che non si rimarginano
La giovane resta in contatto con l’altra vittima. Sa che oggi frequenta una scuola dove ci sono anche due dei condannati in primo grado – all’epoca minorenni – e si chiede come sia possibile: “Li incontra ogni giorno. Così rivive tutto, senza sosta”. Un peso enorme sulla vita di entrambe.
Un paese diviso tra paura e silenzio
Dalle indagini è emerso che alcuni imputati sono legati a famiglie della ’ndrangheta locale. Gran parte della comunità si è schierata con loro, isolando le famiglie delle ragazze. “Se mio padre fosse vivo, non si sarebbero mai permessi tutto questo”, dice la ragazza, la voce rotta dal dolore.
La storia di Seminara e Oppido Mamertina resta una ferita aperta per tutta la provincia di Reggio Calabria. Una storia che mostra quanto sia dura denunciare e ancora più difficile ricostruirsi una vita dopo.
