Palermo, 16 novembre 2025 – Otto persone chiuse per trentasei giorni in una stanza blindata, nel cuore del carcere dell’Ucciardone, a decidere il destino di centinaia di imputati. È questa la storia al centro di “La camera di Consiglio”, il nuovo film di Fiorella Infascelli che arriva nelle sale italiane dal 20 novembre con Notorius Pictures. Già presentato alla Festa di Roma, il film riporta lo spettatore all’11 novembre 1987, quando la Corte d’Assise di Palermo si ritirò per deliberare sulle condanne del Maxiprocesso contro la mafia siciliana.
Maxiprocesso, la stanza dove si è scritta la storia
La regista sceglie di mostrare solo l’ultimo atto del processo più grande della storia italiana. Otto persone – due giudici togati e sei popolari – chiuse nella camera di consiglio. Un bunker costruito dentro l’Ucciardone, simbolo della lotta contro Cosa Nostra. Tra novembre e dicembre 1987, in quella stanza si decise il destino di oltre 470 imputati, accusati di essere il cuore della mafia siciliana. “È una riflessione sui delitti e sulle pene”, spiega Infascelli, raccontando un confronto duro tra il Presidente e il Giudice a latere sul significato di legge e giustizia.
Dentro la camera: diritto, coscienza e dubbi
Il film si svolge in uno spazio chiuso, quasi teatrale. La tensione nasce dal duello tra il Presidente della Corte (interpretato da Sergio Rubini), che si aggrappa alla lettera della legge, e il Giudice a latere (Massimo Popolizio), più aperto a valutazioni flessibili. Intorno a loro, i sei giudici popolari: persone comuni, catapultate in una responsabilità enorme. “Al di là di ogni ragionevole dubbio: dove finisce quel confine?”, si domanda la regista. Il film cammina su questa linea sottile, tra paure, dubbi morali e la fatica di prendere una decisione.
Niente archivi, solo presente
Infascelli ha deciso di non usare materiali d’archivio né flashback. Tutto si svolge nella stanza blindata, senza nostalgia o ricostruzioni storiche. “È l’unica parte del processo a porte chiuse, che nessuno ha mai visto”, dice la regista. “Nemmeno chi ha seguito e ricorda il Maxiprocesso”. Il racconto si concentra sulle reazioni dei protagonisti: sguardi tesi, mani che tremano, silenzi improvvisi. Piccoli dettagli – una tazzina sul tavolo, un orologio che scandisce le ore – raccontano la pressione crescente su ogni giurato.
Tra realtà e immaginazione
Pur basandosi su fatti reali, “La camera di Consiglio” lascia spazio all’immaginazione. “Pochi punti fermi e tanta fantasia”, ammette Infascelli. Non è la prima volta che la regista affronta questi temi: in “Era d’estate” aveva raccontato l’esilio forzato di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1985 sull’isola dell’Asinara, durante le indagini contro Cosa Nostra. Qui la prospettiva cambia: non sono più i magistrati in prima linea, ma chi deve giudicare, chi deve decidere se condannare o assolvere.
Giustizia senza eroi né colpevoli
Il film evita ogni retorica. Non ci sono eroi né cattivi, solo persone comuni alle prese con una scelta che pesa sulle loro coscienze. “La consapevolezza, giorno dopo giorno, della responsabilità che ognuno si assume”, racconta Infascelli. “La fatica, il coraggio, la forza”. Ne nasce un racconto universale sulla giustizia e sulla pena, che va oltre la cronaca giudiziaria e mette lo spettatore davanti a una domanda semplice ma difficile: cosa vuol dire davvero giudicare?
“La possibilità di raccontare un processo mastodontico attraverso il suo momento finale”, conclude la regista, “un film con un impianto teatrale che diventa cinema”. Niente sensazionalismi, solo la claustrofobia di chi deve decidere il destino degli altri. E forse anche il proprio.
