Milano, 28 novembre 2025 – Il licenziamento della maschera del Teatro alla Scala, avvenuto dopo che la giovane aveva urlato «Palestina libera» durante l’arrivo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo scorso 4 maggio, è stato dichiarato illegittimo dal tribunale del Lavoro di Milano. La sentenza, resa nota ieri, parla chiaro: si tratta di un licenziamento politico e il teatro dovrà risarcire la dipendente.
Licenziamento politico: la sentenza che fa discutere
Il tribunale ha stabilito che il Teatro alla Scala deve pagare alla ex dipendente tutte le mensilità arretrate, dal giorno del licenziamento fino alla fine naturale del contratto a termine. A queste si aggiunge il rimborso delle spese legali. Secondo il giudice, la protesta della lavoratrice – che aveva lasciato il suo posto per gridare lo slogan e srotolare uno striscione dalla galleria – non giustifica il licenziamento. Era un gesto legato alla libertà di espressione politica.
Il sindacato Cub, che ha seguito la vicenda e appoggiato la causa, ha commentato con una nota: «Gridare “Palestina libera” non è un reato e i lavoratori non devono essere puniti per le loro opinioni». Il tribunale ha accolto questa linea, sottolineando che la decisione di licenziare non aveva nulla a che vedere con il lavoro in sé.
Il 4 maggio alla Scala: la protesta e la reazione
La protesta è scoppiata durante un concerto a inviti organizzato dall’Asian Development Bank, con la presenza del ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich. Secondo la versione del teatro, la dipendente ha infranto le regole, abbandonando il proprio posto per andare in galleria e manifestare. L’intervento delle forze dell’ordine è stato immediato: la giovane è stata fermata sul posto.
La direzione aveva giustificato il licenziamento con la «rottura del rapporto di fiducia», accusando la maschera di aver ignorato le direttive in un momento delicato. Ma il tribunale ha giudicato la punizione troppo severa rispetto a quanto accaduto.
Soldi e richieste: il risarcimento e il reintegro
Nel dettaglio, la sentenza calcola il risarcimento sulla base della mensilità della lavoratrice, pari a 809,60 euro, fino alla scadenza del contratto, che sarebbe stata il 30 settembre scorso. In tutto, il Teatro dovrà versare circa 4.048 euro per i salari non pagati, più 3.500 euro per le spese legali. Per il sindacato Cub, questa somma è «il minimo dovuto per una vicenda che si poteva evitare».
Ma non si fermano qui le richieste: il sindacato chiede anche il reintegro della maschera al suo posto. I rappresentanti Cub hanno duramente criticato la gestione del sovrintendente Fortunato Ortombina: «Un altro sovrintendente non avrebbe scelto il licenziamento, neppure un rimprovero scritto. È stata solo una figuraccia internazionale, evitabile», hanno detto.
Scala divisa, attesa e silenzi dopo la sentenza
Dentro la Scala, la sentenza ha acceso dibattiti. Alcuni colleghi della giovane hanno mostrato solidarietà, altri sono rimasti in silenzio. Ieri mattina, nei corridoi del teatro, si respirava un’aria di attesa. «Non ci aspettavamo una decisione così netta», ha ammesso una maschera storica prima dell’inizio delle prove.
La direzione non ha rilasciato commenti ufficiali. Fonti vicine al consiglio d’amministrazione hanno fatto sapere che si valuteranno eventuali ricorsi, ma per ora l’intenzione è rispettare la decisione del tribunale.
Un caso che apre il dibattito sul diritto di protesta
La vicenda ha riacceso il confronto sul confine tra disciplina sul lavoro e libertà di espressione nei luoghi pubblici. Alcuni esperti milanesi vedono nella sentenza un precedente importante per casi simili. L’avvocato Giulia Rinaldi, specialista in diritto del lavoro, spiega: «Il diritto di manifestare opinioni politiche non può essere limitato oltre certi limiti».
Intanto, la giovane maschera attende di vedere come andrà a finire. «Sono contenta che sia stata riconosciuta la mia buona fede», ha confidato a chi le sta vicino. La storia, intanto, continua a far parlare dentro e fuori la Scala.
